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Deleuze vent’anni dopo
A cura di Giuseppe Crivella




Deleuze e la questione del ritmo.
Nota a Danielle Cohen-Lévinas
di Giuseppe Crivella


24 ottobre 2015


In Differenza e ripetizione, prima grande manifestazione della sua costruzione teoretica, Deleuze non affronta il ritmo in modo diretto, poiché l’alternanza e l’oscillazione costante fra i due concetti di “differenza” e “ripetizione”, non viene soppesata secondo un modulo così dettagliato da dover scendere nelle specificazioni della fluttuazione ritmica. È però in Mille piani che Deleuze, questa volta insieme a Guattari, salda il suo debito con questa nozione, chiamando direttamente in causa le acutissime osservazione che in merito aveva fatto Benveniste. Ci sembra utile pertanto richiamare qui brevemente le posizioni del grande linguista francese, il quale in un saggio del 1951 intitolato La nozione di «ritmo» nella sua espressione linguistica nota come esso, a differenza del termine /schema/, indichi una forma colta nel momento del suo movimento trasformativo, intesa quindi come qualcosa di mobile, fluido, privo di consistenza organica statica, ma nonostante ciò soggetto ad una certa costanza stazionaria. Si tratta quindi di una configurazione modellata di volta in volta in modo diverso, soggetta cioè a della alterazioni contemplate in uno spettro di variazioni limitate. È un particolare modo di scorrere nel tempo, il quale pur mutando conserva un fondo strutturale permanente seppur non sempre immediatamente visibile o reperibile [1].

Il ritmo qui è legato in modo radicale all’idea di un fluire, un passare continuo, di un trapassare delle forme all’interno di una vicissitudine di disposizioni strutturali indeterminate ma rispondenti ad una ratio ricostruibile proprio sulla base delle mutazioni che si succedono. Esso quindi non designa semplicemente una forma, ma una forma colta nel suo movimento, una forma in processo potremmo dire, una forma che nel perdere la propria fisionomia stabile acquisisce una potenzialità formale ancora maggiore perché in grado di assimilare all’interno della propria dimensione compositiva una più ampia gamma di soluzioni strutturali.

Il ritmo quindi scandisce il farsi della forma, la scuote dal suo torpore e la dinamizza intercalandovi degli intervalli più o meno regolari che agitano la configurazione fino a farla diventare una sorta di mobilissimo quadro astratto in continua evoluzione verso una piano stazionario sempre a venire. Visto in questa accezione così precisa, il ritmo è dato da una coppia ordinata di coordinate che non smettono di interferire l’una nel campo di azione dell’altra, in modo da creare un interessantissimo fenomeno: la prima coordinata è quella della iterabilità di una rappresentazione che rimane tale e risulta conoscibile in quanto tale proprio in forza della sua mancanza di permanenza. La seconda coordinata riguarda invece la capacità della suddetta rappresentazione di svanire all’interno di una molteplice dispersione formale di modificazioni periferiche, le quali la fanno divenire manifestazione aperta su qualcosa di altro, di lontano, di imprevedibile. Iterabilità e diversificazione cooperano a stabilizzare la configurazione secondo una linea epigenetica sempre aperta, predisposta a sollecitazioni strutturali ulteriori seppur chiuse in fin dei conti all’interno di un circuito ricorsivo tanto più ferreo quanto più inavvertibile.

Alla luce di quanto detto sembra difficile non far convergere e reagire tutto questo insieme di riflessioni e considerazioni sulla musica. Eppure, come giustamente nota Danielle Cohen-Lévinas in un bellissimo saggio dedicato ai rapporti tra Deleuze e la musica, il filosofo di Differenza e ripetizione ha intrattenuto col fatto musicale relazioni del tutto sporadiche, quasi casuali. In effetti sarà col capitolo dedicato al ritornello in Mille piani che Deleuze (insieme a Guattari) salda in parte i suoi debiti con la musica e soprattutto con una nozione di musica che gli permette di richiamare in causa le sue riflessioni dedicate alla ripetizione e consegnate nel testo del 1968.

Ma perché questa resistenza di Deleuze nei confronti di una tematizzazione speculativa diretta ed esplicita della musica? In effetti rispondere non è facile, dal momento che per quanto riguarda le altre forme d’arte — letteratura, arti figurative, cinema — l’autore di Logica del senso è sempre sceso nel dettaglio di analisi molto particolareggiate e precise.

La risposta non è facile e forse la domanda stessa è mal posta. Nota a questo proposito sempre Cohen-Lévinas:
L’impossibile traversata della musica nella filosofia e inversamente della filosofia nella musica può essere comparata a una incessante variazione sul tema: come rendere conto di ciò che si produce con la musica? Come renderne conto in atti e concetti? Da questo punto di vista, la filosofia di Deleuze mi pare abbia sempre problematizzato una sorta di utopia intrinseca a ogni discorso sulla musica. In effetti, se si accetta il postulato secondo il quale la musica è una attività interamente creatrice, esattamente come la filosofia ad esempio, siamo da subito condotti a vedere il luogo di questa pratica come una regione del pensiero, al tempo stesso singolare e universale. La musica non si presta facilmente all’esercizio del commento [2].
Sebbene Deleuze non abbia quindi sentito la necessità di tematizzare in modo forte e pregnante il fatto musicale, riteniamo sia possibile desumere dalla sua opera alcuni strumenti per analizzare tale fatto. Scegliamo di farlo pertanto prendendo in considerazione proprio la nozione di ripetizione e, in particolare, quella strettamente connessa al ritmo. Seguendo Cohen-Lévinas possiamo ancora notare:
L’assunto di Deleuze, come prevedibile, non consiste nel commentare le opere facendone da subito l’oggetto di una interpretazione di Boulez. Sarebbe stato questo un metodo troppo prossimo alla glossa o a un pensiero critico piatto, senza asperità né contingenza, per soddisfare momentaneamente il filosofo. L’ascolto di Deleuze è qui quello di un artigiano della percezione, che non esita a sottolineare gli spasmi e le fratture temporali inscritte nei repertori così diversi come quelli che è invitato a seguire. Da questo punto di vista, al compositore e agli interpreti non resta che far ascoltare, in una difformità reale dal senso comune, una figura prolissa di tempo, portata da una materia contemporaneamente consistente e ideale. È proprio del compositore far coagulare questi profili di tempo, in modo che ne risulti una ritmica di senso temporaneamente intemporale, resa istantanea per l’orecchio, ciò che Deleuze, in riferimento alla pittura di Bacon, intravedeva come «una comunicazione esistenziale che andrebbe a costituire il momento patico della sensazione» [3].
Come emerge immediatamente da questo secondo estratto, l’attenzione va subito a concentrarsi sul ritmo, sul sezionamento del tempo colto in una accezione intemporale, come se la trasformazione ritmica invece di rimarcare l’esistenza di uno scorrere dei momenti per un attimo dilatato indefinitamente lo interrompesse, lo arrestasse, lo sospendesse, lo spingesse a girare a vuoto in una circolarità di iterazioni e trasformazioni che risponde esattamente allo schema alternato da noi messo a fuoco poco sopra.

La stessa musica diventa un elemento sottoposto ad ardita ibridazione, così che essa nel medesimo tempo diventa una materia ideale e consistente, materiale. La sensazione irrompe qui con il suo momento patico e contemporaneamente essa rimanda ad una sfera di eventi puri, ideali, immateriali da cui la dimensione concreta e corporea è assolutamente esclusa.

Rimandando qui a quella topica temporale tripartita che Deleuze individua in Differenza e ripetizione [4], possiamo dire che essa si trova qui ad essere pienamente confermata, perché sulla base delle scarse ma essenziali considerazioni di Deleuze sulla musica consegnate in questo articolo la musica sarebbe l’unico dispositivo di pensiero in grado di mostrare il tempo stesso al di fuori delle forzature concettuali operate su di esso dalla tradizione:
La musica è evidentemente un luogo ove coabitano differenti velocità, ripetizioni di velocità: un luogo di velocità per la velocità, un luogo che esalta la velocità in quanto questa si erge come pura entità dinamica – cosa che Deleuze designa con «tempo fluttuante», sinonimo di ciò che Proust chiamava «un po’ di tempo allo stato puro». La musica sarebbe allora per Deleuze ciò che realizzerebbe una forma di presentazione del tempo che eccede la sua stessa rappresentazione nel senso hegeliano del termine; una forma d’azione, di individuazione di un pensiero che si autopresenta, si autogestisce e si autogenera in successioni non limitative di fenomeni e di molecole sonore? In breve, un ordine astratto che attualizza una potenza di avvenimenti [5].
La musica vale qui come una materia fluida e disponibile alla mutazione incondizionata: il ritmo l’attraversa da parte a parte rendendola una struttura attiva e dinamica da cui si dipartono delle concretizzazioni limitate nel tempo ma ripetitive al cui centro mobile è possibile trovare una sorta di vuoto erratico a cui la riproduzione in serie dei patterns non smette di ritornare ogni volta in accezione variata seppur legata in qualche maniera alla manifestazione precedente. È proprio alla luce di questo che il ritmo diventa ritornello in Mille piani e il ritornello [6], a sua volta, ora poiesis pura, ora difesa dal caos di ogni forma vivente, vegetale, uccello, primitivo. È un tessuto di suoni che resta tramato da momenti di confusione e di distorsione, ma sempre recuperato però in un frangente posteriore o successivo di ordine in cui il ritmo interviene come forza vitalmente necessaria e ineludibile. Nota ancora Cohen-Lévinas:
Il materiale è in sé così elaborato che può prescindere dalla forma. Diviene ormai presente come potenza d’evento, svuotato d’un senso altro rispetto al primato della sua elaborazione concreta, quasi tangibile. Una volta liberato da ogni gravame dialettico, il materiale libera a sua volta delle forze vitali secondo un percorso clinico e non più astratto che la nostra percezione è in grado di captare. Deleuze soppianta il concetto di forma con quello di forza, comprendendovi quei repertori che hanno conservato la traccia della fusione anteriore della coppia forma-materia; fusione rinascente, contro ogni attesa. La scelta delle opere proposte da Pierre Boulez è eloquente per quanto riguarda tale spianatura anteriorità/presente, tale indifferenza di certi compositori nei confronti dello sradicamento dalla loro musica di ogni traccia di ciò che fu. Essi operano per trasformazione, per sviamento e spostamento permanenti delle funzioni interne delle leggi della composizione. Il Dialogo del vento e del mare di Claude Debussy è l’esempio tipico di un’opera la cui forza di affrancamento è mediatrice, tra la suggestione della sua origine e l’affermazione del suo presente, un continuum temporale che tenta di cancellare, senza farlo sparire totalmente, l’elemento di unione tra trascendenza e immanenza. E tuttavia, la forza del materiale soppianta la qualità transizionale dell’opera di Debussy; la soppianta e la smuove. Deleuze arriva ad affermare che «il materiale è lì per rendere udibile una forza che non sarebbe udibile per se stessa, ovvero il tempo, la durata, e anche l’intensità» [7].
Letta in questo senso la questione del ritmo non solo permette di disseppellire in seno alla riflessione deleuziana un posto per la musica, ma assegna a quest’ultima una postura e una dimensione speculativa di primo ordine, le quali trasformano in tal modo il pensiero dell’autore di Differenza e ripetizione in una immensa enciclopedia obliqua del fatto estetico [8], che non smettono di comunicare nervosamente e fertilmente tra di loro, in un processo di instancabile slittamento detererritorializzante che conduce a vedere nel cinema uno specchio infranto di segni che rimandano all’immagine intesa quale penombra paranoide della realtà, nella letteratura una possente trama di visioni schizoidi nel profondo grembo delle quali l’allucinazione assurge a matrice direttiva del retto rapporto con il mondo esterno e nella musica l’istanza spettrale di una tortuosa ubiquità del presente che non torna e non muta, ma piuttosto finisce per ricollocarsi sempre all’altezza di un principio del tempo nel cui immobile rivenire è elusa ogni origine semplice.


[1] Cfr E. Benveniste, Problemi di linguistica generale, trad di M. V. Giuliani, Il Saggiatore, Milano, 1971, p. 396 e sgg..
[2] D. Cohen-Lévinas, “Deleuze musicien”, in Rue Descartes, n. 20, Gilles Deleuze, immanence et vie, (mai 1998), pp. 137-147, tradotto in questa stessa sezione con il titolo: Deleuze musicista.
[3] Ivi, p. 137.
[4] G. Deleuze, Differenza e ripetizione, a cura di G. Guglielmi, Il Mulino, Bologna 1971, pp. 141-159.
[5] D. Cohen-Lévinas, “Deleuze musicien”, cit., p. 141.
[6] G. Deleuze-F. Guattari, Mille piani, a cura di M. Carboni, Castelvecchi, Roma 2014, pp. 456-474.
[7] D. Cohen-Lévinas, “Deleuze musicien”, cit., p. 145.
[8] Intendiamo qui estetico nell’accezione in cui viene tratteggiato soprattutto in J. Rancière, Aisthesis, Galilée, Paris 2011.



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